Gli Spazzi
40 1844) con Storie del Vecchio e Nuovo Testamento (foto 29-32) , mentre nel 1855 consegnava il gruppo da collocare in alto, sull’acroterio, con le virtù teologali Fede Speranza e Carità . Entrambi i lavori seguivano, in merito all’iconografia, disposizioni lasciate in maniera certa nei suoi disegni da Giuseppe Barbieri (foto 33) , a sua volta esplicitamente ispirati ancora una volta a Canova ( foto 34 , metopa per il Tempio di Possagno, Treviso). Del gruppo purtroppo, così come degli altri che successivamente furono posti sui pantheon, s’è persa la traccia. Intanto era arrivata nel 1850 anche una nuova committenza privata, quella della famiglia Sacchetti, ma purtroppo le bombe della seconda guerra mondiale hanno distrutto il loro monumento funerario lasciando integro il solo basamento sul quale si legge ancora la firma incisa “G.° Spazzi”. Ne resta anche una vecchia foto (foto 35) pubblicata sul libro dedicato al cimitero che padre Bernardino Bar- ban scrisse per celebrare i cento anni dall’inizio della sua costruzione, nel 1928. Se ne ritrova testimonianza nella relativa richiesta di autorizzazione presentata alla Congregazione Municipale conservata in Archivio di Stato, purtroppo però pri- vata, come molti di questi documenti, del relativo progetto che andava conte- stualmente prodotto (doc. 4a, 4b) . In questo monumento finalmente Grazioso abbandona il rigore richiesto dalla pubblica committenza e riprende quel dialo- go privilegiato con la realtà iniziato nel 1842 con il Monumento Dalla Riva . Il committente Gabriele Sacchetti appare ritratto in dimensioni reali, sullo stesso piano dei visitatori del camposanto e soprattutto vestito “alla moderna” – questa è la più coraggiosa scelta da parte dello scultore – mentre china il capo di fronte all’immagine della madre defunta. Grazioso dimostra qui la capacità di aggior- narsi sulle strade più innovative che la scultura prende fuori dalle mura di Ve- rona. Risuonano infatti nell’immagine che progetta per la famiglia Sacchetti gli echi di un’altra composizione, un monumento funebre che Vincenzo Vela aveva scolpito per la famiglia Adami Bozzi che ancora si trova al cimitero di Pavia, presentato all’esposizione di Brera del 1846 con grande effetto e clamore. A Mi- lano questo ardito ingresso nell’intimità del vivere e sentire quotidiano era stato accolto positivamente, ma a Verona la questione era di là dall’essere digerita, e accendeva ancora gli animi con parole sdegnate di rifiuto. Basta, per rendersene conto, andare a rileggere quanto fu scritto in occasione dell’inaugurazione, nello stesso 1850, del Monumento Busti Trevisani (ora a Villa Monga) scolpito da In- nocenzo Fraccaroli. Il maestro di Grazioso si era tenuto su un piano idealizzante, cosa che era stata molto apprezzata dai censori, mentre l’allievo si era avventu- rato su altre strade, rappresentando fedelmente i segni della vecchiaia e dell’av- vicinarsi della morte, e dando al suo insieme una concretezza tangibile. Anche Giuseppe Camuzzoni, destinato di lì a poco – come presidente dell’Accademia di Agricoltura Scienze e Lettere e della Società Belle Arti, infine come sindaco – ad avere un ruolo centrale nella storia della scultura monumentale veronese, intervenne difendendo la scelta di Fraccaroli e lanciando un monito affinché il
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